Il 4 novembre del 1918, alle ore 15.00, entrò in vigore l’armistizio firmato il giorno precedente a Villa Giusti dai rappresentanti d’Austria-Ungheria e del Regno d’Italia. Dopo tre anni e mezzo sul fronte italiano tacquero le armi che avevano insanguinato le Alpi dallo Stelvio all’Adriatico. Sul fronte francese, invece, si continuerà a morire nelle trincee per un’altra settimana.
A cento anni da quel giorno si potrebbe supporre di poter valutare un evento drammatico come il primo conflitto mondiale con un certo distacco, analizzandolo in una prospettiva storica. A quanto pare, purtroppo, un processo del genere risulta impossibile in determinati ambienti, almeno a giudicare dalla demenziale campagna di Fratelli d’Italia, ribattezzata con un certo cattivo gusto „non passa lo straniero“ con un chiaro riferimento alla difesa sul Piave dopo la catastrofe di Caporetto dell’ottobre 1917. Se paragonare gli eventi di oggi a quelli di cento, duecento, trecento o mille anni fa è stupido, sciacallare sui caduti per fini politici, cercando di ragranellare un po‘ di consenso tra sovranisti e nostalgici, è invece disgustoso. Allo stesso modo è quanto mai discutibile parlare di „vittoria“ nel 2018, dopo aver visto il XX secolo insanguinato dalle conseguenze di quel conflitto.
Si può parlare di vittoria davanti ad una intera generazione falciata dalle mitragliatrici, dilaniata dall’artiglieria, soffocata dalle armi chimiche? Possiamo parlare di vittoria pensando alle centinaia di migliaia di mutilati, di feriti nel corpo e nello spirito? Esiste una vittoria nella psiche di chi è impazzito in trincea sotto le bombe ed è stato bollato con disprezzo „scemo di guerra“? Dove è la vittoria nei fucilati, nei decimati e nei prigionieri abbandonati a morire di stenti nei campi di prigionia con il benestare di Cadorna, di Diaz e la complicità del governo allora in carica? Sono forse vittorie la nascita del mito della vittoria mutilata e della Dolchstoßlüge che portarono al potere il fascismo ed il nazionalsocialismo, precipitando il mondo in una nuova spirale di orrore e sangue appena due decenni dopo? L’unica vittoria, forse, è stata quella degli Agnelli, dei Krupp e degli altri grandi industriali che con la produzione bellica guadagnarono cifre da capogiro mentre nelle trincee d’Europa milioni di lavoratori, operai e contadini marcivano nel fango morendo come mosche.
Come vivere, quindi, il 4 novembre? Una data di questo tipo non può che essere occasione di riflessione e di memoria, onorando i caduti – tutti, a differenza di chi ricorda solo i sudtirolesi caduti sul fronte italiano, dimenticando vergognosamente quelli morti sul fronte galiziano che, evidentemente, non sono politicamente spendibili – e facendo in modo che simili orrori non accadano mai più.